Un goal da Pierino
Dal blog Fumo di Londra di Gianluca Zucchelli VENERDÌ, 30 GIUGNO 2006.
Questo racconto trae ispirazione da una storia vera che mio padre mi raccontò.
Giampiero era ala destra e, prima di metter su famiglia, giocò alcuni campionati in un paio di squadre emiliane, in serie C. Si tolse anche lo sfizio, con una Rappresentativa Militare, di battere la selezione dei Marines degli Stati Uniti con risultato da pallottoliere. Fu una sfida da tempi della Guerra Fredda, quando mandarono i parà di leva come lui a presidiare il confine fra Italia e Jugoslavia (allora si chiamava così). Giampiero non fece carriera né soldi col calcio. Ma si divertì tanto e fece, nel suo piccolo, sognare. In qualche bar e osteria lungo il Po, almeno l’ultima volta che ci andai, diversi anni fa, c’era ancora qualche sua fotografia, ingiallita dal tempo. Nel mio cuore quei colori sono invece vivissimi.
Con i Moggi che corrono, questo racconto mi pare vada tolto dal cassetto dov’era, e regalato ai lettori di "Fumo di Londra".
La palla cadde a terra quasi senza rimbalzare. La terra era pesante e il cuoio pure per via della pioggia che continuava a cadere. Il rinvio era stato buttato in avanti quasi di malavoglia. “Fate girare la palla” aveva detto il Presidente scendendo nello spogliatoio, con un sorriso untuoso. “Non fate i campioni oggi e chiudete con un bello zero a zero che stasera vi porto a cena”. Strano, il Presidente non scendava mai negli spogliatoi. Il capitano aveva strizzato un occhio agli altri, rifacendosi il nodo alle scarpe bullonate. Avevano i pantaloncini un po’ più lunghi del normale, scuri, e la casacca bianca con le stringhe al collo. Forse per questo i tifosi al terzo grappino li chiamavano gli inglesi. L’allenatore si era sistemato il nodo della cravatta e aveva bevuto un sorso d’acqua. Poi aveva detto, senza guardarli in faccia: “Ragazzi, noi siamo già salvi e il campionato non lo vinciamo più. A loro un punto serve per salvarsi. Forse al Presidente hanno promesso un giocatore nuovo per settembre, a un prezzo di favore. Non fatemi dire altro, ma non facciamo tante storie. Dai, fate i bravi ragazzi”. Erano passati dal tunnel senza fare una parola e si erano rimessi a giocare ostentando una lena fasulla. Sudavano sotto la pioggia, scivolavano nel fango, badavano a fare un po’ di scena senza farsi male. Stavano anche coperti, attenti a non prenderlo, il goal, perché non si sa mai. Gli accordi, finché non fischia il novantesimo… A una manciata di minuti dalla fine la palla fu rinviata dalla difesa con un plateale campanile e ricadde sul campo a sette o otto metri dall’area di rigore. Il terreno di gioco era ormai tutto una pozzanghera. Il pallone si posò senza il solito rimbalzo. Sembrava morto, non respirava, non saltava, come se attendesse che qualcuno potesse ridargli vita. Quella palla era davvero bella. Pirìn non amava tirare in porta. Faceva l’ala destra, anzi era un’ala destra, lo era dentro. Gli piaceva andare con la palla incollata al piede di corsa fino al fondo del campo, proprio in fondo, quasi alla riga dell’out. Correva molto più forte degli altri, perché era piccolo e di baricentro basso. Aveva le gambe storte e le cosce sode. Quando correva, un po’ per vezzo, un po’ per vedere se gli altri, quelli alti e robusti, ce la facevano a stargli dietro, teneva la testa alta e riusciva a cogliere lo stesso nel pallone. A volte gli toccava di fermarsi, pensa un po’, a cincischiare un attimo, prima di crossare, perché arrivasse finalmente un pennellone di centravanti o centrocampista dentro l’area di rigore per servirgli il passaggio. Forse per quello lo volevano nella squadra di atletica ma a lui piaceva il calcio. Sì, l’assist era la sua passione, il cross la sua poesia. Godeva nel farli fuori tutti, nel trovare uno spazio dove per gli altri avrebbero perso la palla. Insomma amava andare in fuga solitaria quanto ricamare di fantasia negli spazi stretti. A volte teneva troppo il pallone, avrebbe dribblato anche se stesso, perché in fondo il ragazzo coi ricciolini neri e la pelle olivastra in campo e nella balera si trasformava. Dimenticava di essere fragile ed insicuro, diventava narciso, un brillante seduttore. Un divo di quelli che andava a guardare al cinema, col sacchetto di seme in mano e la gazzosa con la pallina. Con le prime sigarette. Dalla linea dell’out alzava il braccio sinistro, piegava il ginocchio d’appoggio e dava il suo servizio al goleador di turno. Ne aveva visti sbagliare tanti, altri buttare dentro, a volte anche lui aveva sbagliato la misura. Pareva si divertisse a lasciare la gloria – ma anche la responsabilità – agli altri. Sembrava che dicesse: io ho fatto il mio, eccome, ora vedetevela voi. In ogni caso l’ultimo passaggio era il suo pane quotidiano, il suo score. Se avesse dovuto segnare tacche sulla sua scarpetta, non sarebbero stati i gol ma i passaggi andati a buon fine. Ma stavolta nessuno avrebbe raccolto quel passaggio. Il suo piede non avrebbe dato vita ad alcuna fantasia, o forse sì, una ce n’era. Stavolta la palla era ricaduta davanti a Pirìn come un piatto di lasagne fumante, il suo piatto preferito. Non aveva neanche rimbalzato, poverina. Se ne stava lì, tutta sola, come una bimba nell’angolo di una sala da ballo, in attesa di un liscio. Sì, il Presidente ha detto, ma una così bella palla… Pirìn sentì battere forte il cuore e tremare la sua arteria sul collo quando posò il suo piede d’appoggio, il sinistro, a fianco della sfera infradicita. Piegò il ginocchio e caricò il destro in modo da colpire di collo pieno, cercando l’angolino alto opposto della porta, come da manuale, da una distanza quasi impossibile da allora che di tiri da lontano se ne facevano ancora pochi. Colpì con la tutta la forza e la grazia, la sua scarpa, il suo corpo e il pallone erano come un solo respiro. Vide le gocce d’acqua schizzare via dal cuoio e la palla partire come una folgore con un traettoria che pareva telecomandata. Lieve rientro negli ultimi due metri e il pallone passò irraggiungibile, lasciando il portiere a bocca aperta, e andò a gonfiare beffardo la rete nel giorno sbagliato. Pirìn alzò un dito al cielo, fra gli sguardi esterrefatti dei suoi compagni, lo sgomento incredulo nelle facce livide dei suoi avversari. In tribuna i tifosi infreddoliti e un po’ annoiati dallo scialbo secondo tempo fiatarono un “Goal” non rabbioso, sembrava più un “oh” di meraviglia uscito senza sforzo. Un signore che fino ad allora sembrava addormentato in piedi dentro il suo cappotto si alzò e disegnò nell’aria con un braccio la traiettoria del pallone, come al rallentatore. Il Presidente invece fulminò il numero 7 con uno sguardo. Si girò, il ragazzo coi pantaloni e la casacca che sembravano del fratello maggiore. Con il dito ancora per aria, vide l’allenatore crollato sulla panchina con le mani nei capelli. Ritrasse il dito con un gesto furtivo e fece come per grattarsi la testa, rientrando verso il centro del campo. Abbassò la faccia, il prato era ormai completamente affogato in una enorme pozzanghera. Il Presidente pensò: forse ha sbagliato, forse voleva buttarla sul fondo… ora guardalo, è a capo chino, si sarà reso conto… ma Pirìn chinò il capo e socchiuse gli occhi per rivedere nella sua mente quella palla, quella palla spettacolare che gli era capitata nel giorno sbagliato. Si nascose la faccia fra le mani e scoppiò a ridere di gusto.